La Discesa di Ištar negli Inferi

Il termine antico per indicare questi viaggi è CATABASI (parola formata da andare e giù), con la quale si intende la discesa di una persona viva nell’Ade, in un vero e proprio luogo fisico, al quale si poteva persino accedere in terra da alcuni punti, difficilmente raggiungibili o comunque segreti e inaccessibili a quasi tutti i mortali.

Tre statuine femminili “tipo Astarte” dall’isola di Cipro databili tra 600 e 475 a.C. Museo d’Antichità Winckelmann, inv. 5016, 4867, 4994

La più antica catabasi conosciuta risale alla religione mesopotamica con la Discesa negli Inferi della dea Ištar o Astarte.

Tra i reperti della Collezione Cipriota del Museo d’Antichità “J.J. Winckelmann” sono presenti alcune statuine o idoletti in terracotta di figure femminili, nude e stanti, con le mani ai seni, che richiamano lo stile fenicio e sono legati al culto della dea Astarte. Divinità molto potente, associata alla fertilità e alla rigenerazione, introdotta sull’isola direttamente dai Fenici che vi si insediarono nel IX secolo a.C. e qui venne assimilata alla locale dea femminile di antica devozione.

Il racconto della Discesa negli Inferi della dea Ištar è a noi pervenuto in diverse redazioni in lingua accadica (si tratta di testi spesso frammentari provenienti principalmente da siti archeologici assiri, come Assur e Ninive), datate a partire dalla fine del II millennio a.C. Questi testi derivano però sicuramente da un poema più lungo e più antico in lingua sumerica (probabilmente risalente al III millennio o all’inizio del II) che aveva come protagonista la dea Inanna, omologa di Ištar nel pantheon sumerico.

Ištar arriva alle porte dell’oltretomba e chiama i guardiani a gran voce, minacciando, se non le fosse stato aperto, di distruggere la porta e di far uscire dal Kurnugi i morti, che avrebbero divorato i vivi, così da sovvertire l’ordine del mondo. I guardiani avvertono la signora dell’oltretomba, Ereshkigal, sorella di Ištar, che coglie l’occasione per attirarla in una trappola. La dea viene fatta entrare per le sette porte degli Inferi, e per ciascuna porta viene spogliata gradualmente delle sue vesti e dei suoi gioielli, simboli del suo potere. Alla fine, nuda, viene fatta entrare nella sala del trono di Ereshkigal. Quest’ultima ordina al suo ministro Namtar, dio del destino, di scagliare contro Ištar sessanta malattie, e colpire ogni parte del suo corpo.

La prigionia della dea ha l’effetto di interrompere ogni attività di generazione nel mondo dei viventi. Questo stato di cose preoccupa gli dèi, e il dio Enki/Ea trova una soluzione, creando un giovane di grande bellezza, Tammuz, da inviare alla dea malvagia per affascinarla e indurla al perdono nei confronti della sorella. Il piano sembra fallire (il testo è mutilo), perché Ereshkigal, pur dapprima affascinata, inizia a maledire la creatura maschile. Alla fine però concede la grazia a Ištar e ordina a Namtar di innaffiarla con l’acqua della vita; la dea dunque risale al mondo dei viventi in un brano simmetrico nel quale viene rivestita delle sue vesti e dei suoi ornamenti. Tuttavia, in cambio della propria salvezza, deve lasciare nell’oltretomba il suo amante Tammuz. Questi ritornerà sulla terra ogni anno per un solo giorno per i rituali a lui consacrati.

Idolo femminile stante in terracotta da Cipro del XIII – metà XII secolo a.C. Museo d’Antichità Winckelmann, inv. 4994.
Cose dell’altro mondo: l’inferno degli antichi

L’omaggio del Museo d’Antichità “J.J. Winkelmann” a Dante Alighieri, a 700 anni dalla morte, è un’indagine sulle sue fonti: a chi si è ispirato? Un percorso in tredici tappe tra alcuni reperti delle ricche collezioni archeologiche del museo collegabili agli dei e ai personaggi che hanno compiuto il viaggio nell’al di là.