Seguendo le tracce triestine di Dante si va a finire dritti dritti nel laboratorio linguistico globale di quel triestino di un irlandese che è James Joyce.
Ebbene sì, c’è del Dante, nell’Ulysses e in Finnegans Wake, e pure parecchio. Specie in quest’ultima fatica letteraria l’autore italiano più letto e amato da Joyce spadroneggia. Il “Work in progress” (oggetto di riscritture per ben 16 anni) viene licenziato da Joyce nel 1938 in un inglese arricchito di senso e di suoni presi in prestito da altre 18 lingue. Un melting pot di idiomi e livelli lessicali degerarchizzati che sommano l’esperienza triestina (dialettale e barbara, come la definisce Stelio Crise) di Joyce scrittore in italiano a quella di Joyce seguace della teoria linguistica praticata da Alighieri nella “Commedia” e che ne emula lo stile di mezzo a suon di calambour fonetici per esaltare la pluralità dei significati.
Di omaggi onomastici al padre della lingua italiana Finnegans Wake è pieno, dall’undante umoroso («Andante amoroso», ma anche «non-dante umoroso») fino al divine comic denti alligator dalla coda – ovviamente – «mastrodantic».
Racconta Ettore Settanni, assieme a Nino Frank co-traduttore con Joyce della prima versione italiana di uno dei brani di Finnegans Wake – Anna Livia Plurabella – che Joyce così definì questa sua tecnica di deformazione delle parole: «Padre Dante mi perdoni, ma io sono partito da questa tecnica della deformazione per raggiungere un’armonia che vince la nostra intelligenza, come la musica».
E come potrebbe padre Dante non aver perdonato Joyce che è riuscito a trasporre il celeberrimo «Pape Satan, Pape Satan Aleppe» (Inf. VII 1) in un irriverente imprecante e irresistibile «Bayorka Buah. Boyana Buhe»?