Dante e la botanica: Inferno

Nel 1865, in occasione della ricorrenza dei 600 anni della nascita di Dante Alighieri, venne pubblicato a Firenze il volume “Dante e il suo secolo, 14 maggio 1865” un’opera che raccoglieva il contributo di autorevoli personaggi del tempo sulla politica, l’economia, l’arte, la religione e le scienze.
A Roberto de Visiani (1800-1878) importante botanico italiano di quel tempo, fu affidato l’incarico di ricercare le conoscenze di Dante sulla botanica.

Wikipedia Roberto de Visiani in una foto dello studio Francesco Benque di Trieste.

Il Visiani inizia la sua analisi incontrando nel secondo canto dell’inferno il primo riferimento alla botanica quando Virgilio esorta Dante a vincere i suoi dubbi, gli infonde forza e coraggio, grazie anche alla protezione delle tre donne benedette (Maria, Lucia e Beatrice), paragonandolo ai fiori che la notte si chiudono e si chinano al fresco della rugiada e quando il sole li illumina di nuovo si raddrizzano, si aprono e si colorano.

(inf. II 127-130)

Nel terzo canto, Caronte trasporta con ordine le anime da una riva all’altra, e il Poeta descrive questo passaggio usando le foglie che cadono in autunno, non in modo disordinato e senza regole, ma una dopo l’altra nello stesso ordine che ha regolato la loro nascita e crescita, dimostrando una precisa osservazione del fenomeno.

(inf. III 112-115)

Dante parla ancora di botanica quando, nel bosco dove sono imprigionate le anime dei suicidi, descrive ciò che accade a un ramoscello verde di pruno che bruciato ad un estremità manda all’altra acqua e aria e quest’ultima uscendo stride quando passa nei canali del legno e questo fenomeno lo paragona al sangue e alle parole delle anime.

(inf. XIII 31-44)

Infine, Roberto de Visiani, trova altri due passaggi nell’inferno che meritevoli di nota e in entrambi i casi per rendere poetico il concetto usa il frutto del fico.
Il primo quando incontra nel XV canto Ser Brunetto Latini e il Poeta paragona il buon cittadino (Dante) con la dolcezza del fico, contrapponendo il sapore aspro del sorbo ai cattivi e tristi cittadini di Fiesole.

(inf. XV 61-66)

Il secondo nel canto XXXIII, quando parlando del frate Alberigo de Manfredi che uccise i suoi nemici a tavola portando della frutta come segnale per i suoi scagnozzi, riceve una singolare punizione, quella di stare con il capo nel ghiaccio soffrendo perché la sua pena è maggiore di quella che lui usò per i suoi nemici, paragonando il fico e il dattero.

(inf. XXXIII 116-120)

Alla prossima puntata, quando scopriremo la botanica nel Purgatorio.