Il dipinto realizzato da Vincenzo Giacomelli oggi esposto al Museo Sartorio va identificato con quello descritto in Tempi andati da Giuseppe Caprin nel 1891 come Boccaccio spiega il Dante del 1842, e, nello stesso anno acquistato da Pietro Sartorio.
La grande tela oggi figura nel Salotto di Paolina, accanto alla Sala neogotica come completamento dello stile eclettico di quegli ambienti, ove i quadri esistenti rievocano i temi letterari e storici allora in voga. Al pari ci pone di fronte alla rappresentazione figurativa di quello che fu il culto di Dante nell’Ottocento, quando studiosi e artisti videro nel sommo poeta non solo il letterato e il filosofo, ma il profeta e il dipinto in questione ne è un significativo esempio.
La scena si svolge nella chiesa di Santo Stefano a Firenze. Nello stretto spazio è ritratto un gruppo di persone che circonda una figura dallo sguardo ispirato, Boccaccio, con gli occhi rivolti al cielo, le labbra socchiuse, la mano destra tesa, mentre con l’altra sfoglia un libro appoggiato ad un leggio ligneo intarsiato. Sebbene non incoronato dalla consueta corona d’alloro, che l’iconografia riconosce a Boccaccio a Dante e a Petrarca, si è giunti all’identificazione in Boccaccio perché fu incaricato dalla municipalità di Firenze di dar lustro all’Alighieri, quando ormai il sommo poeta era morto e il suo corpo sepolto lontano dalla città natale: Firenze gli aveva voltato le spalle, confiscato i beni ed esiliato. Boccaccio, più giovane di Dante di una quarantina d’anni, scrisse il Trattatello in Laude di Dante, una prima biografia del poeta e aggiunse “divina” alla Commedia dantesca.
Il fulcro della scena non è solo Boccaccio, in piedi stante, perché più di una figura attrae l’attenzione: l’uomo alle sue spalle in atteggiamento contemplativo; le due donne sulla destra; il vecchio al centro seduto con la testa china e il mento appuntito, che è l’unico a incontrare lo sguardo dell’osservatore. Per quanto l’episodio narrato si svolga nella città toscana, Giacomelli lo eseguì a Venezia, servendosi più volte dei medesimi modelli che compaiono riconoscibili nelle tante affollate scene storiche, che il pordenonese amava rappresentare per lo spirito patriottico che lo contraddistingueva.
Vincenzo Giacomelli nacque a Grizzo di Pordenone nel 1814 e già nel 1830 risulta iscritto all’Accademia di Venezia. Iniziò ad esporre con successo, e s’impose nel 1838 con la tela di soggetto storico Giovanna Grey giustiziata ed altri dipinti ispirati alla vicenda del doge Marino Faliero, allora assai in auge. Una di queste opere venne esposta a Torino, città nella quale fu attivo tra il 1839 ed il 1849 alla corte sabauda. Anni fervidi, che lo videro vincere il concorso all’Accademia veneziana voluto da Giacomo Treves nel 1839, ma soprattutto realizzare l’imponente opera per il mecenate Sante Giacomelli Antonio Loredan e l’assedio di Scutari (Treviso, Museo Civico). Nel 1846 sposò la parigina Vittoria Hadin ed il suo studio veneziano fu frequentatissimo.
Punto di svolta fu l’adesione alla difesa di Venezia nel 1848 alla quale partecipò in qualità di tenente di Fanteria della Guardia Nazionale veneta. Di questo fondamentale periodo della sua carriera rimangono le sei tele oggi a Rovigo, raffiguranti gli episodi salienti che la città visse in quegli anni. Presente alle esposizioni milanesi di Brera, si trasferì di nuovo a Torino negli anni ’70. Realizzò anche dipinti di chiaro gusto romantico derivatogli da una visione diretta delle opere francesi del genere. Morì a Venezia nel 1890.