«Io dico che un israelita traducendo Dante in ebraico fa un atto ostile al Giudaismo». Tranchant la censura del Rabbino Lelio della Torre sull’Inferno di Dante fatto ebraico del triestino Saul Formiggini.
Saul Formiggini, Dodici epigrafi poetiche a centone dantesco pel secentesimo anniversario natalizio di Dante Alighieri che Tergeste anch’essa festeggia nel maggio dell’anno 1865, Trieste, Herrmanstofer, 1865 Biblioteca Hortis, R.P.Misc. 3-1958
‘Dantizzare’ l’ebraico è, infatti, un’operazione culturale di appropriazione linguistica dal profondo significato ideologico e politico, che tocca le fondamenta dell’antitesi giudaismo – cristianità.
Questa operazione è evidente nella traduzione di Formiggini. Una scorsa alla prefazione della sua versione dell’Inferno risulta illuminante:
«Alighieri fu il poeta dell’umanità tutta. Egli vaticinò. Nacque cristiano e quindi si servì di quella dottrina. I principali suoi concetti, i maggiori suoi argomenti sono però di tutte le religioni. Dalla Bibbia egli trasse preziosi concetti, e tutto prova che la conoscesse a fondo. […] Dopo i profeti della Bibbia, che parlano per opera dello Spirito Santo, Dante è il poeta più ispirato e nessun altro, di nessun’altra nazione e lingua, gli è pari».
Scopo dichiarato di Formiggini è dimostrare la compatibilità del linguaggio delle sacre scritture con quello dantesco per provare «che a tutto si presta quell’antichissimo idioma».
La sua traduzione è un atto di emancipazione culturale. Appropriarsi della lingua di Dante volgendola in ebraico legittima l’ emancipazione degli ebrei dal ghetto – anche culturale – dell’Europa moderna ed il loro ingresso nella società civile mediante la letteratura, che non è più ‘altra’ – scrittura sacra dettata da Dio – ma equiparabile alla letteratura dei gentili, fatto d’uomini e perciò traducibile in forza dell’interscambiabilità di senso tra il linguaggio profetico della Bibbia e quello vaticinante della Commedia.
Rimane tuttavia incolmabile l’abisso teologico che separa Alighieri dalla fede ebraica.
Ne è perfettamente consapevole un altro triestino, Samuel David Luzzatto (noto con l’acronimo ebraico Shadal (Trieste, 22 agosto 1800 – Padova, 29 settembre 1865), zio materno di Felicita Rachele Coen – madre di Umberto Saba, esegeta biblico, poeta, letterato, innovatore della lingua ebraica, dal 1828 docente del Collegio rabbinico di Padova.
In una sua lettera in una lettera datata 22 agosto 1859 scrive:
«L’idea di Dante non credo giudaica […]. La Divina Commedia è tutta cristiana».
E tuttavia Shadal, personalità intransigente, non oserà rendere pubblica la propria opinione sul poema dantesco. Anzi.
Nel sonetto composto nel 1865 in occasione del sesto centenario della nascita di Alighieri, pubblicato in versione originale sul Corriere Israelitico e in appendice alla versione dell’Inferno di Formiggini del 1869, definisce il poeta fiorentino Tzaddiq, «colui che incarna i valori religiosi del giudaismo» e lo paragona agli antichi profeti nel lodarne l’ispirazione.
Il Corriere israelitico, 1865
Biblioteca Hortis, RP Per 127
Il sonetto di Luzzatto accoglie due Leitmotiv ricorrenti nel giudaismo letterario che reinterpreta Alighieri.
Il primo innalza Dante a profeta dell’umanità, giacché prefigura una religione comune a tutti i popoli della terra:
«Come gli antichi d’Israel Veggenti.
Sì che tra i vati sommo t’elevasti;
te d’ogni cielo esaltano le genti»
[versione italiana del Rabbino Giuseppe Jaré]
Il secondo Leitmotiv è il Dante politico, ghibellino ed esule.
La condizione esistenziale patita dal Poeta è ulteriore motivo di empatia per gli ebrei italiani, a cominciare dal Risorgimento, quando la memoria della diaspora inizia a sovrapporsi al sentimento di lontananza dalla patria per motivi politici.
Dalla metà dell’Ottocento Dante funziona dunque come modello di comportamento per gli italiani, ebrei e non, in esilio, ed è un modello condiviso nei circoli liberali e mazziniani e nelle comunità israelitiche, sulla base di una interpretazione comune con l’etica cristiana, di cui Shadal si fa interprete nel sonetto del 1865.