Nei suoi scritti Dante descrive le malattie con una proprietà di linguaggio che rivela una sorprendente familiarità con la medicina. Presso il fondo Sabbadini della Biblioteca dei Civici Musei di Storia ed Arte si conserva il saggio “La medicina ai tempi e nell’opera di Dante” del triestino Arturo Castiglioni (1874-1953). L’autore espone il testo, nell’ambito delle celebrazioni dantesche della Società di Minerva, il 19 dicembre 1921.
Arturo Castiglioni è figlio del rabbino Vittorio e fratello maggiore del finanziere e imprenditore Camillo. Dopo avere frequentato il liceo Dante, si laurea in medicina a Vienna. Dal 1922 insegna Storia della medicina, prima a Siena e poi a Padova, e collabora per molti anni con l’Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile. L’opera che lo rende noto è la “Storia della Medicina”, edita nel 1927, tradotta in più lingue ma messa all’Indice dai nazisti. A seguito della promulgazione delle leggi razziali, nel 1940, si trasferisce negli Stati Uniti dove entra alla Yale School of Medicine. Nel 1947 Arturo torna a Milano ove muore nel 1953.
La presenza del saggio nel fondo di Salvatore Sabbadini (1873-1949), docente di greco e latino al Ginnasio comunale Dante Alighieri dal 1985 al 1938 e libero docente di Letteratura latina all’Università di Padova, non è casuale. Arturo dona a Salvatore l’opuscolo con una dedica in cui lo chiama Salvo. Sono cresciuti insieme frequentando il liceo Dante e la Comunità ebraica negli stessi anni. Un’altra copia è donata dall’autore a Piero Sticotti “in ricordo dell’antica amicizia”, come scrive sul frontespizio.
Castiglioni definisce Dante non solo il sommo Poeta ma anche “il primo filosofo laico che domina tutto il sapere del suo tempo, ne abbraccia tutti i campi e tutti feconda”. Sostiene che il Poeta frequenta a Bologna alcune lezioni di medicina e, tornato a Firenze, sceglie di iscriversi all’arte dei medici e degli speziali. Per questa ragione, viene sempre effigiato avvolto dal “lucco”, l’ampio abito scarlatto ornato di pelle di vaio (di scoiattolo), costume non esclusivo ma spesso usato dai medici. Il 15 giugno 1300 il Sommo viene eletto a priore della città per l’arte dei medici e speziali, sicuramente per motivi politici, eppure nelle sue opere si trova “una così vasta e profonda cognizione di tutta la scienza medica del suo tempo, uno spirito di osservazione così acuto” che attestano la familiarità con questi argomenti.
Conosce Ippocrate, che nel Purgatorio definisce “sommo”, Avicenna, Galeno, Averroè. Cita nelle sue opere i medici più importanti del suo tempo.
Nel Canto XII del Paradiso nomina Taddeo degli Alderotti, celebre professore di Bologna, dagli onorari salatissimi. Taddeo redige un libro per l’amico Corso Donati, con interessanti consigli d’igiene, tra cui evidenzia l’importanza della cura della bocca e dei denti e raccomanda caldamente la ginnastica dei muscoli con frequenti esercizi quotidiani.
Conosce Pietro D’Abano, filosofo, astrologo e medico autorevole, condannato al rogo dopo la sua morte. Cita nel Paradiso Pietro Ispano “lo qual già luce in dodici libelli”.
Nel “Convivio”, Dante parla ripetutamente dell’anatomia dell’occhio e di alcune malattie della vista, ma è soprattutto nella “Divina Commedia” grazie all’esattezza della terminologia utilizzata nelle descrizioni anatomiche che dimostra la sua competenza. Scolpisce magistralmente le crisi epilettiche, gli effetti derivati dal morso dei serpenti o il prurito e le manifestazioni cutanee dei falsari, rendendo vivide le pene dei dannati nell’Inferno.