«Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai in Russia pellegrino
per vedere la gente ivi smarrita.»
Si inizia così la parodia del poema di Alighieri scritta a quattro mani da due soldati italiani di divisa austriaca, il trentino Ermete Bonapace e il piranese Silvio Viezzoli, prigionieri in Russia nel campo di Kirsanov tra il 1915 e il 1916.
Il campo era stato istituito come centro di raccolta provvisorio per 15.000 prigionieri austro-tedeschi – tra i quali molti trentini e giuliani – cui era stata prospettata la possibilità di essere liberati e trasferiti in Italia qualora si fossero dichiarati italiani. Una scelta difficile, essendo l’esito finale della guerra incerto: dichiararsi italiani significava dichiararsi traditori.
Il professor Silvio Viezzoli (Pirano 1889-Trieste 1977), insegnante di lingue, è redattore della rivista clandestina La nostra fede, ideata già ad Orlov dal fiumano Clemente Marassi che a Kirsanov ne diviene direttore. Il giornalino – racconta Viezzoli nelle sue memorie – ha per motto il dantesco Non sbigottir, ch’io vincerò la prova, costa tre copechi ed esce per la prima volta il 26 febbraio 1916. Oltre ad articoli politici e letterari d’intonazione patriottica e un bollettino quotidiano, il giornale pubblica scherzi rimati, per far dimenticare per un quarto d’ora la noia e i disagi della prigionia.
È dello scultore Ermete Bonapace l’idea di far arrivare a Kirsanov Dante guidato da Virgilio. E Viezzoli affianca l’amico nella scrittura. Dante col suo Maestro visita i luoghi dove sono acquartierati gli italianski. Si fa raccontare le loro tentate fughe, entra in una «ciainaia» (dove si beve il tè, «ciai») per scaldarsi, assaggia il rancio «poiché dice di aver letto nel Corriere della Sera che i prigionieri italiani in Russia erano trattati bene almeno per ciò che riguarda il vitto […] ma poco dopo è costretto a rigettare» fra le risa generali.
L’auto-rappresentazione è spesso condita di autoironia: Virgilio legge l’ora su un orologio comprato da un ebreo ed apprende la lingua russa a lezione nel limbo da Puškin, mentre Omero dà una mano a rivedere le bozze della rivista.
Il riferimento testuale prevalente per questo esperimento di riscrittura in terzine di endecasillabi è l’Inferno. Ma a farla da protagonista, nei versi composti da soldati dell’Impero che dichiarano la propria italianità scrivendo, è il tempo sospeso della prigionia, del Purgatorio, la parentesi spinata tra l’adrenalina della precarietà in trincea ed il Paradiso del sospirato ritorno in patria. Un’identità incerta, sospesa:
[…] «Costoro son sospesi,
non sono austriaci e non sono italiani
non son soldati e non son borghesi.
Austriaci son detti dai profani
e grigio hanno indosso ancora il saio
ma l’anima di lor li fa romani.
Del soldato sopportano ogni guaio,
ma lor arme, come puoi ben vedere,
è per or la gamella ed il cucchiaio» (S. Viezzoli, I, 113-123)
Riconoscersi italiani per lingua e cultura, rinsaldare le fila, dare testimonianza, raccontare la prigionia ricorrendo spontaneamente a Dante come modello espressivo e miniera di immagini e metafore potenti, necessarie per raccontare l’inferno della guerra. La scrittura diventa il luogo della liberazione espressiva, per chi scrive ma anche per chi legge: per i prigionieri, ma anche per i tanti italiani per cui Dante è stato motore culturale del risveglio della coscienza politica nazionale.
Per approfondire, vi invitiamo a leggere le memorie di Silvio Viezzoli ed i saggi di Ida De Michelis sulla Divina Commedia irredenta che potete prendere in prestito nelle biblioteche di Trieste.